“I luoghi esistevano perché c’erano le storie”: e le storie del sud del nostro e degli altri Paesi, sono quasi sempre storie rimosse. O meglio, appiattite a un solo punto di vista, che spesso fa coincidere, ad esempio, il sud Italia con la mafia nelle sue diverse articolazioni. E invece, la prospettiva che arriva da quei territori può essere – è già, spesso – un laboratorio politico e sociale, in cui può mettere radici un nuovo pensiero. Lo sanno bene Claudia Fauzia e Valentina Amenta, che in “Femminismo terrone. Per un’alleanza dei margini” (Tlon) hanno riletto la storia del sud Italia, la loro parabola personale, la vita e le scelte di alcune persone – dalla cantante Rosa Balistrieri al sindacalista Nino Gennaro – per farne una bussola per apprendere nuove forme di lotta. Anche contro la mafia. Ne abbiamo parlato con Claudia Fauzia.
Storicamente, l’antimeridionalismo alimenta le mafie?
La criminalità organizzata è un fenomeno mondiale, quasi umano. La mafia, la ndrangheta e la camorra, hanno avuto particolarmente fortuna anche per la narrazione che gli è stata cucita addosso, il successo che hanno avuto a livello filmico, giornalistico e letterario. Hanno cristallizzato alcuni stereotipi, ma non sono certi cult ad aver dato tanto potere.
E allora cosa?
Le mafie si stanno muovendo verso nord, e anche il nord Italia deve interrogarsi. Seguono sempre interessi commerciali ed economici, vanno dove c’è più capitale e dove possono più tranquillamente svolgere i loro affari. Al sud, le amministrazioni pubbliche sono fragili, quindi possono insediarsi più facilmente, come un cancro, e tenere sotto scacco la popolazione dove non sono soddisfatti i diritti essenziali. Mai sottovalutano alcuni aspetti.
Ad esempio?
Che il modo in cui raccontiamo influisce su quello che capiamo. Prendi la presenza delle donne nella mafia, che rivela bene il condizionamento delle narrazioni. In cosa nostra, gli stereotipi legati al genere hanno impedito di vedere la partecipazione delle donne nella mafia, hanno portato a sottostimarla. In alcuni casi si è arrivati a percorsi giudiziari “sbagliati” proprio per questo.
Fai una lettura molto interessante della storia coloniale del sud, recuperata come un po’ folklorica, retorica, usata a vantaggio di diversi sistemi di antistato. Tu come ti poni su questo?
L’Italia ha un problema col suo passato coloniale. Il mancato riconoscimento di questo ha impedito di svelare le dinamiche di colonialità che hanno creato il sud e la questione meridionale. Per questo il sud è descritto come la palla al piede che impediva la modernizzazione del Paese intero. E questa concezione si è sedimentata nel racconto della nazione. Ancora oggi tutti i discorsi sulla questione meridionale si concentrano sulla crescita economica, ignorando tutte le dinamiche di colonialità che impediscono al capitale di essere distribuito e di portare un vero sviluppo. È un discorso difficile da fare, perché purtroppo alcune prospettive come quella neoborbonica, hanno reso vincente il racconto di un passato come rimedio di tutti i mali. In realtà non c’era ridistribuzione della ricchezza, c’era un latifondismo spietato. Dobbiamo fare una riflessione da una prospettiva diversa, sganciando il sud dalla questione nazionale.
Come?
Mettendo il sud Italia all’interno delle riflessioni decoloniali che si stanno sviluppando in tutto il mondo, senza metterlo allo stesso livello delle colonie del sud globale. Questo ci permetterà di superare i confini nazionali e creare alleanze che possono effettivamente cambiare il modo in cui ragioniamo. Una cosa simile potrebbe essere fatta col movimento antimafia, che sembra avere una portata sempre e solo nazionale, se non locale e regionale. Se si parla di sud, allora si parla di antimafia, se si parla di nord, molto spesso non se ne parla, o al più si percepisce come un fenomeno italiano. In una società iperglobalizzata, dove i confini sono superati da tutte le nuove tecnologie, continuare a parlare dei fenomeni come rinchiusi dentro un confine, è sciocco.
Tanto più se lo si legge, come nel libro, in un’ottica intersezionale ai discorsi razziali, discorsi di classe, discorsi di abilità. È un cambiamento di paradigma?
È la novità che cerchiamo di portare: libri sulle questioni meridionali con questo approccio ce ne sono alcuni, nessuno integrava la prospettiva femminista. Secondo me il movimento femminista è uno dei più potenti e rivoluzionari che siano mai esistiti, proprio per la capacità di abbracciare la complessità, di legare i vari temi, di rispondere alle esigenze moderne.
Qual è il rapporto tra femminismo e antimafia?
In quanto femminista siciliana che ha rivendicato la sua appartenenza geografica non come un dettaglio anagrafico, ma come un posizionamento politico, sono stata costretta a parlare di antimafia. A chiunque si espone viene chiesto. È inutile impegnarmi per la liberazione delle donne, delle persone queer, senza pensare che le mafie sono strumenti di oppressione simili a quelli del patriarcato, che impediscono ai territori di respirare e alla gente di vivere liberamente. Recuperando la memoria della nostra genealogia, abbiamo rintracciato delle figure che incarnavano contemporaneamente la lotta al sistema etero patriarcale e quella antimafia. È significativa la storia di Nino Gennaro, socialista antimafia queer che si si è battuto per tutta la vita per i diritti degli omosessuali con accanto una compagna femminista: la sua biografia è l’esempio calzante di un collegamento che c’era ancora prima di nominarla.
Dove manca il femminismo nazionale e sovranazionale?
Per me il femminismo nazionale in Italia non esiste. C’è un femminismo locale tra Roma e Bologna che si è auto dichiarato nazionale e non ha incluso nessun movimento partito dalle periferie. Napoli è stata inserita in questo ragionamento soltanto per insistenza, Palermo ci sta provando con scarsi risultati. Sta mancando una presa di consapevolezza di che cos’è l’Italia e il movimento, cioè un aggregato di micro associazioni con impatto zero sui loro territori, perché senza risorse, senza energie, senza soldi e senza una strategia. Abbiamo un problema di imitazione di ciò che accade fuori e facciamo poco affidamento sul nostro territorio. Il femminismo terrone ha la possibilità di mostrare cosa succede facendo un femminismo radicato.
Nel libro parli di Northsplaining. Cosa può insegnare invece il sud?
Partirei dai bisogni concreti, dall’autocoscienza degli anni ’70. Non ci si può limitare a obiettivi astratti. Io cercherei di tornare nei gruppi di quartiere, ripartire dal marciapiede. Per le persone che abitano in certe parti d’Italia è un luogo di socialità: ci metti le sedie e lì ti riunisci con delle persone, puoi ricamare, giocare a carte, parlare, bere. Significa recuperare uno spazio pubblico, e pratiche che già esistono. Così avviciniamo anche persone che non si incontrerebbero mai.
Funzionerebbe anche per l’antimafia?
Si. Per me l’antimafia non è un mestiere, è ciò che noi facciamo quotidianamente e raramente riconosciamo. Penso alla narrazione di Felicia Bartolotta. Senza di lei, oggi non ci si ricorderebbe di suo figlio, Peppino Impastato. Ma lei ha aperto le porte di casa sua e ha cominciato a raccontare, ha portato memoria nel suo corpo.
Qual è il rapporto, invece, tra sud e queer?
Anche la narrazione sull’omofobia e sul patriarcato come più insidioso e più forte al sud ha avuto molto successo. Non ci sono dati che lo dimostrano. Ma il modo in cui si forma una famiglia, in cui si costruiscono le relazioni sociali, dipende anche dal contesto. Se mancano servizi, trasporti, scuole, la famiglia si assume quel compito. Per cui, misurare il patriarcato sulla forza della famiglia mononucleare è miope. E d’altra parte, le storie di segno diverso sono rimosse: il fatto che in Calabria sono state elette tre delle sei sindache in Italia alle prime votazioni democratiche; l’esistenza del collettivo Femminista di Cinisi; la nascita di Arcigay a Palermo dopo il delitto di Giarre. Questo territorio è sempre raccontato come passivo, corrotto: così ha poca possibilità di uscire da questa stessa narrazione.
Secondo te, perché?
Il processo di alterizzazione viene insieme a quello di inferiorizzazione: chi viene da fuori vuole spiegarci come si vive, come si lotta, come si fa attivismo, come si lavora. Questo è il Nortsplaining, legato all’esotismo, che riguarda anche la mafia e a una turistificazione propinata come la soluzione unica al sottosviluppo che ci fa turisti dei nostri territori e non più cittadini. Un problema che si verifica qui, come la mancanza d’acqua o le alluvioni, resta un tema locale. Diventa un problema nazionale solo se colpisce altrove.
Consideri importante anche il recupero della lingua, dell’accento.
Una parte di identità passa attraverso le parole che si usano. Poi la lingua è la prima frontiera di riconoscibilità delle persone meridionali. È stata sempre usata per discriminare, distinguere, dividere, per raccontare l’ ignoranza, l’inciviltà. Eppure solo la lingua che si parla in un territorio è capace di descriverlo, è necessaria per comprendere i contesti. La lingua viva dei parlanti, è un veicolo di antidiscriminazione, e deve essere risignificata, politicizzata per raccontare una comunità che vuole emanciparsi. Poi è stata usurpata dalla narrazione dominante, compresa quella sulle mafie. Dovremmo invece ridarle l’apertura globale di chi magari è nato in Sicilia, però vive all’estero perché costretto a emigrare e mischia la sua lingua con le altre.
Vedi la cultura, l’arte, come una possibilità di liberazione?
Si sta facendo l’errore di chiedere agli artisti di sostituirsi ai politici. Secondo me intellettuali, scrittori, poeti e giornalisti dovrebbero avere il compito di seminare dubbi e incertezze. Sono potenti perché fanno sentire scomodi, raccontano una realtà che non vedi.