Nel 1950, nel Regno Unito, un uomo veniva condannato per l’omicidio di moglie e figlia a causa di un’errata interpretazione delle sue affermazioni registrate durante gli interrogatori. Per la prima volta, veniva analizzata la trascrizione di un parlato. L’applicazione della “linguistica forense” mostra come il linguaggio possa costituire una prova nei casi giudiziari. Il voiceprint di una persona, come lo definiva l’autore L.G. Kersta nel 1962, è «analogo all’identificazione delle impronte digitali perché utilizza caratteristiche uniche che si trovano nelle loro espressioni».
L’intercettazione sbagliata
A più di sessant’anni di distanza, il tema resta centrale, anche senza il rischio di una condanna a morte. Il giudice Mario Conte, che al tribunale di Palermo si occupa anche dei procedimenti per ingiusta detenzione, lo conferma: «Il numero di fascicoli che ho ricevuto per cattiva lettura delle intercettazioni non si può neanche immaginare». La prima trascrizione viene fatta dalla polizia giudiziaria; dopo spetta ai periti incaricati dalle procure. «Ci sono persone finite in galera perché è stato intercettato qualcuno di sbagliato. Sono problematiche inquietanti». La soluzione, talvolta, è prendere il controllo delle registrazioni: «Nei casi dubbi, le riascoltiamo noi. Come si dice: Iudex peritus peritorum». Il giudice è il perito dei periti.
Il modello statunitense
«Il problema delle trascrizioni è serio e in Italia viene sottovalutato», concorda Giuseppe Paternostro, professore di sociolinguistica all’Università di Palermo e autore del saggio Linguaggio mafioso. I linguisti hanno le competenze per ascoltare una voce e individuare la provenienza del parlante in base all’accento, ma «ormai si utilizzano i software o l’intelligenza artificiale, non si usano più carta e penna». Secondo Paternostro, l’Italia dovrebbe ispirarsi a modelli esteri come quello statunitense, in cui le trascrizioni vengono fatte con la consulenza dei linguisti forensi. Pensiero condiviso anche dall’ex dirigente della Omicidi di Roma e attuale direttore dell’istituto di vigilanza Italpol Antonio Del Greco, che sottolinea l’importanza della competenza in ambito linguistico: «Una volta avevamo dei criminali cinesi sotto controllo che parlavano addirittura un dialetto, non la lingua tradizionale. Siamo stati costretti a ingaggiare una persona che lavorava in un ristorante e a battezzarla come ausiliare della polizia per aiutarci con le traduzioni». Questione di pari importanza, secondo Laura Albertini, collaboratrice di una ditta di trascrizioni processuali della Capitale, è la capacità di restituire un quadro completo della conversazione registrata. «Al trascrittore che si occupa delle intercettazioni non basta ascoltare e scrivere. Deve dare modo già dalla lettura di capire il contesto». Esitazioni, pause prolungate, parole non finite: «Tutto va riportato come si sente». La trascrizione deve essere fedele all’intercettazione, «non può essere ripulita o modificata». In particolare, nelle indagini che precedono i processi per mafia la precisione e i dettagli sono fondamentali.
Messaggeria crittografata
Se prima le associazioni mafiose utilizzavano i cosiddetti pizzini, soprattutto con boss come Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, col passare del tempo le loro abitudini sono cambiate insieme a società e tecnologia. Il linguaggio nel corso degli anni ha subito un forte cambiamento dovuto sia ai mezzi che ai tempi. Come evidenzia Del Greco, «prima si usavano i dialetti, ad esempio. Un parlare più locale. Poi si è passati alla scrittura con i pizzini e adesso c’è la tecnologia». Da diversi anni la criminalità organizzata utilizza piattaforme come Signal e Telegram, applicazioni di messaggeria crittografata, ostacolo per le indagini perché impossibili da intercettare se non inserendo all’interno dei dispositivi un Trojan, un malware che consente di spiare i dati dell’utente. Nei casi di crittografia avanzata, i messaggi si autodistruggono e il software non può essere installato direttamente, dunque deve essere innestato nel server: «Così è possibile crearne uno specchio per clonare i messaggi».
Crimine e privacy
È l’esperienza di Mario Palazzi, pubblico ministero del tribunale di Roma, che si è scontrato con questi sistemi in diversi casi nel corso della sua carriera. Nell’ambito dell’operazione Grande Raccordo Criminale, i soggetti coinvolti in uno dei più grandi giri di droga di Roma sono stati intercettati proprio grazie a questo sistema: «Abbiamo capito che era utilizzato da criminalità organizzate di tutto il mondo: Sud America, Europa e Stati Uniti». Questione ostica è la tutela della riservatezza che può essere tirata in ballo facilmente, impedendo a chi si occupa delle indagini di mettere sotto controllo i server: «Se sono un imprenditore, posso avere timore di subire intercettazioni abusive da parte dei competitors, dunque utilizzerò un sistema che mi garantisca una certa impermeabilità. Se lo faccio per commercializzare cocaina – come nel caso dell’inchiesta – non c’è un interesse meritevole di tutela».
Cellulari multiuso
Spesso, ci si è ritrovati a dover intercettare conversazioni telefoniche in cui uno degli interlocutori si trovava in stato di detenzione in carcere, contesto in cui ormai girano sempre più dispositivi elettronici fuori dal controllo delle guardie penitenziarie. In quei casi si pone il problema della «permeabilità totale – aggiunge Palazzi – perché i cellulari, il più delle volte, sono di proprietà di una sola persona che dà la possibilità ad altri detenuti di utilizzarli in cambio di pagamenti». Ciò implica che le conversazioni intercettate non abbiano mai un unico mittente e la percentuale di errore potrebbe essere molto elevata. Fra le celle vengono organizzate persino videochiamate, che collegano i detenuti con i complici esterni. Proprio come è successo negli scorsi mesi a Palermo. Gli inquirenti della procura hanno scoperto il gruppo criminale grazie all’errore di due componenti, costretti a cambiare i loro dispositivi malfunzionanti svelando i membri della loro rete quando hanno provato a ripristinare il sistema. Un passo falso che si è rivelato decisivo per i carabinieri. Sarebbe stato quasi impossibile intercettarli, come conferma il magistrato Mario Conte, che si sta occupando in prima persona di scrivere la sentenza della maxi-retata che ha portato a più di 180 arresti. Il termine tecnico per i dispositivi è criptofonini: «Sono dei telefoni intercettabili. Hanno una forma di criptazione che può essere superata solo con delle chiavi di lettura, spesso fornite dalle autorità straniere».

I criptofonini
Secondo Conte, questo deve far capire lo stato attuale delle bande criminali. «Sono persone che si adeguano tantissimo alle novità tecnologiche o informatiche. Stesso discorso per i mezzi di comunicazione. La storia dei criptofonini è una delle dimostrazioni più evidenti». La nuova frontiera riesce così ad essere subito integrata con la vecchia guardia. I problemi generazionali, semmai, riguardano gli obiettivi, come emerso dalle intercettazioni al capomafia di Brancaccio Giancarlo Romano: «Il livello è basso oggi […] ma ci siamo ridotti a campare con la panetta di fumo? Le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita, ma che parlavano della panetta di fumo?». Anche da queste parole emerge un aspetto centrale: non esiste un linguaggio in codice. «È un’idea popolare – precisa Conte – i criminali, invece, preferiscono concentrarsi sul trovare dei mezzi non intercettabili, proprio per poter parlare in maniera più chiara». I termini criptici sono rari, anche per evitare malintesi fra i membri. Spesso, però, sono quelli che attirano di più l’attenzione delle persone. «In quei casi si tratta più di curiosità secondo me, non di vero interesse per il contenuto. Non so quanto la gente comune si interessi alla criminalità».
I detenuti tiktoker
Oggi, la questione non si limita più al mero utilizzo dei telefoni in carcere. Come dimostra un caso del 2023 a Terni, i detenuti sono diventati i principali protagonisti di Tik Tok. In quel contesto, tre camorristi hanno trasmesso una diretta in cui interpretavano il ruolo di cantanti neomelodici, a riprova che la cella è diventata il luogo preferito in cui fare spettacolo e che il modo di comunicare dei protagonisti si è evoluto stando al passo coi tempi. Sono stati numerosi i casi scoperti soltanto nell’estate di quell’anno, in cui c’è stato il boom di tiktoker dentro gli istituti penitenziari. Già dal 2021 si erano diffusi gli hashtag #prisontok e #prisonlife, parole chiave che basta digitare sulla barra di ricerca del social network per vedere apparire centinaia di video dove i reclusi si raccontano. Se un tempo i seguaci più fedeli mandavano messaggi ai carcerati dall’esterno attraverso la dedica di canzoni passate dalle radio private, «oggi si dimostra rispetto anche attraverso la condivisione, i like e i cuoricini», dice il professore Paternostro, per sottolineare che ad essere cambiato non è soltanto il modo di comunicare criminale ma, di conseguenza, il modo in cui sono percepiti. Spesso su Tik Tok vengono anche pubblicate le clip dei colloqui telematici tra detenuti e familiari, usati per trasmettere informazioni o direttive al di fuori del carcere. Dunque, lasciare un follow in un determinato profilo o un commento a un nuovo contenuto di un appartenente a un clan mafioso sono modi per porgere i propri omaggi, dimostrare la propria stima o comunicare al mittente di aver ricevuto il messaggio.
Il pc come un’arma
Meno pistole, più computer. Si può riassumere così l’evoluzione del linguaggio criminale nel tempo. Il mondo della criminalità organizzata si è adattato ed espanso nell’era digitale in cui le piazze virtuali sostituiscono quelle reali. Se la lingua non è codificata, adesso lo sono le comunicazioni, grazie a tecnologie avanzate e crittografia. Come da testimonianza degli esperti, le armi più potenti per combattere questi sistemi sono conoscenza e competenza in ambito linguistico e, oggi, anche in campo informatico. La raccomandazione finale, allora, la dà Conte: «Bisogna abbandonare l’idea che la mafia è composta da pecorari che camminano con la coppola in testa».