La mafia ai tempi del web: così le caverne digitali diventano la nuova piazza delle faide tra i clan

La mafia ai tempi del web: così le caverne digitali diventano la nuova piazza delle faide tra i clan

Sono diventati il nuovo territorio delle mafie che comunicano ed esercitano il loro potere a suon di post, video, immagini, hashtag, emoji e slogan pubblicati tra Tik Tok, Instagram e Facebook. La mafia, assume qui, sul web, un’aura di fascino e attrae. E per l’antimafia, questo è un fronte sui cui lavorare per combattere la criminalità organizzata su un terreno che sfugge, tra uno scrollo e l’altro, ai classici strumenti della legalità, difficile da indagare e in continuo movimento.  “La tecnologia è diventata un ambiente da abitare” spiega a #Noi Antimafia Antonio Nicaso, scrittore e studioso dei fenomeni mafiosi che, solo un anno fa ha pubblicato il libro “Il grifone. Come la tecnologia sta cambiando il volto della ‘ndrangheta” assieme al procuratore di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Le mafie si adattano bene e a tutto, senza tempo e senza spazio, e per questo dice: “non deve stupirci la loro presenza sui social così come non deve stupirci la loro presenza nelle cosiddette caverne digitali. Lo spazio cibernetico è diventato un’espansione del territorio fisico, hanno capito che al territorio fisico devono necessariamente aggiungere quello digitale”. Il digitale, oggi, è la piazza di tutti.

Il digitale nuovo terreno di guerra

“Alle mafie – prosegue Nicaso – i social servono, soprattutto, come strumento di controllo del territorio digitale a cui applicano le stesse dinamiche di controllo del territorio fisico: l’idea del brand, del marchio reputazionale, l’estetica del potere e della ricchezza”. Lo definisce “una sorta di specchietto delle allodole dove attrarre nuovi simpatizzanti”. Quello che accade è che i gruppi criminali usano i social per lanciare messaggi a clan rivali o per rafforzare la loro influenza e la loro reputazione. I mafiosi adoperano per comunicare lo stesso linguaggio che impieghiamo tutti noi, in un continuo passaggio tra realtà digitale e reale. A chiarire questo punto è l’analisi di Marcello Ravveduto, professore all’università di Salerno, Modena e Reggio Emilia e autore del rapporto “Le mafie nell’era digitale”. Intervistato da #Noi Antimafia”, Ravveduto ha precisato che, ad esempio, in una faida “i social vengono utilizzati per fare una comunicazione che spesso è di provocazione dell’avversario o di rafforzamento della reputazione del clan”.

Quindi le guerre tra clan diventano pubbliche, non più questioni interne. I social network si trasformano in vetrine in cui i gruppi criminali si narrano a tutto tondo. Su questo punto Ravveduto spiega che si verifica “la costruzione di un’auto-narrazione e di un’auto-rappresentazione del loro mondo in cui si presentano come mafiosi autentici e non come raccontati da altri”. Si trovano video in cui mostrano la loro famiglia, la vita carceraria, le piazze di spaccio, portano chi condivide lo spazio digitale nelle loro dinamiche più strette.

I social network: un vantaggio e una sfida per i clan

Nicaso mette in luce la doppia faccia del reale-digitale, da una parte un vantaggio e dall’altra una sfida per le mafie. “La nuova tecnologia può sicuramente diminuire i costi di gestione delle mafie, può accorciare le distanze, aumentare il fatturato”, ci spiega. “Ma dipende da come si usa perché – precisa – i social media, soprattutto le caverne digitali, offrono molte possibilità, come trovare nuovi partner commerciali, estendere lo spazio non solo fisico ma anche globale verso i mercati digitali”. Allo stesso tempo, c’è il rovescio della medaglia: “i social – prosegue Nicaso – diventano una sfida anche per le organizzazioni criminali che se non si adeguano e non entrano in questo mondo non acquisiscono, direttamente o indirettamente, questo tipo di competenze e sono destinate a rimanere indietro, quindi a scomparire”.

La doppia faccia dei social: vetrina e racconto

I clan mafiosi occupano il territorio digitale o meglio, si dovrebbe dire, sono parte del mondo digitale così come lo è ognuno di noi. Ma, se nella vita di tutti i giorni, la vita reale, possiamo distinguere le nostre azioni quotidiane da quelle criminali, nello spazio social i contenuti possono essere mescolati. “Molto spesso – ci fa notare Ravveduto – i contenuti realizzati dai mafiosi passano come contenuti normali perché c’è un grande rumore che li copre. Ad esempio, alcuni contenuti sul lusso di matrice mafiosa possono finire insieme ad altri contenuti legati al lusso in cui non c’entrano nulla le mafie”. Ma, continua, se “uno è semplicemente un racconto del lusso, l’altro appartiene al linguaggio delle mafie del XXI secolo”. Mette poi, una linea di demarcazione tra i due mondi, quello criminale e quello normale, parlando di mafio-sfera. La mafio-sfera è il territorio social della mafia. Sono le foto, i video, gli hashtag, gli emoji in cui si possono rintracciare le caratteristiche della mentalità mafiosa. Ci dicono come la criminalità organizzata si racconta e si rappresenta nei social.

La lotta alla mafia sui social inizia da Tik Tok

Un passo importante per la lotta alla mafia nei social è stato fatto, nella primavera del 2024, quando alcuni rappresentanti di Tik Tok di Dublino hanno incontrato a Roma il procuratore Nicola Gratteri e il professor Antonio Nicaso. Dopo una serie di segnalazioni e indicazioni, un team di ingegneri informatici ha costruito un software in grado di individuare alcune parole chiave specifiche del linguaggio mafioso, riuscendo a bloccare un numero consistente di file audio e video riconducibili al mondo della criminalità organizzata. Il professor Nicaso ha spiegato che, per esempio, nel caso di Tik Tok “si capisce che i rappresentanti hanno intenzione di arginare questo fenomeno e che le loro sono state reazioni che significano sicuramente una volontà ad affrontare il problema e cercare di risolverlo”. Sia Nicaso che Ravveduto fanno però luce anche sulla facilità del linguaggio mafioso di sfuggire alle maglie degli algoritmi. Il rischio, infatti, è che questi strumenti non riescano ad individuare chiaramente contenuti riconducibili alla criminalità organizzata perché, spesso, vengono usate espressioni gergali oppure semplicemente perché i contenuti si confondono con tutto ciò che è al di fuori della mafio-sfera, tutto ciò che ognuno di noi pubblica, da un semplice hashtag fino ad una sequenza di emoji.

“Per smascherare la mafia serve una rete di segnalatori sul territorio”

La lotta al potere mafioso nel mondo digitale passa, secondo Ravveduto, per il rovesciamento delle piattaforme. “L’unico modo è rovesciare l’analisi delle piattaforme – spiega – cioè non bisogna guardare ai contenuti dall’alto, ma il contrario. Ci dovrebbero essere sui territori diversi segnalatori che sono in grado di sapere qual è la simbologia utilizzata e quindi segnalare verso l’alto quali sono i post e i profili che possono essere a mentalità mafiosa”. Questo va di pari passo con la creazione di una società più consapevole. “Si deve partire – dice Antonio Nicaso – dall’abc, dalla scuola, dalle famiglie, dalla società, da tutto ciò che può produrre una reazione positiva. Non si può pensare di combattere questi fenomeni solo con le manette e le sentenze”. E, ribadisce Ravveduto, “l’unica cosa per combattere la diffusione dei contenuti mafiosi è aumentare la diffusione di contenuti positivi. Questa è la legge dei social, perché se i contenuti positivi sono più di quelli di mentalità mafiosa ovviamente l’algoritmo spinge sui contenuti più visti”. È necessario rafforzare la cultura della legalità con messaggi di impegno civile per dare orientamenti oltre che digitali anche sociali.