Interviste sotto scorta/ Sigfrido Ranucci: “La ‘ndrangheta voleva la mia morte. Una volta il mio omicidio fu fermato da Messina Denaro” 

Interviste sotto scorta/ Sigfrido Ranucci: “La ‘ndrangheta voleva la mia morte. Una volta il mio omicidio fu fermato da Messina Denaro” 

«Parleremo ancora di mafia e continueremo a ricordare le stragi. Perché la criminalità organizzata è più influente di quanto crediamo». Conduttore del programma Report e vicedirettore di Rai3 dal 2020 al 2022, Sigfrido Ranucci ha dedicato decine di inchieste agli affari di camorra, cosa nostra e ‘ndrangheta. Dai traffici di armi alla droga, fino ai contatti tra politica e malavita, il giornalista non si è mai fermato davanti a querele e intimidazioni. Fino a quando è diventato bersaglio di una coppia di assassini, ingaggiati per farlo tacere. Così nel 2021 gli è stata assegnata la scorta. Dieci anni prima, quando lavorava per RaiNews24, Ranucci fece trasmettere l’ultima intervista inedita del magistrato Paolo Borsellino, registrata poche ore prima della strage di Capaci

Prima della scorta eri già in un programma di protezione? 

«Sì, ero sotto tutela dal 2009 perché la famiglia Ercolano aveva chiesto a un soggetto pericoloso di tenermi d’occhio. Avevo realizzato un’inchiesta in Sicilia su una cava di sabbia gestita dal clan catanese». 

Perché si è alzato il livello di allerta? 

«Un narcotrafficante legato alla ‘ndrangheta, alla destra eversiva e al cartello colombiano di Pablo Escobar aveva incaricato due killer albanesi di spararmi. Non aveva gradito un mio servizio sui rapporti tra politica e criminalità organizzata. Venne intercettato nel penitenziario di Padova».  

Come si è evoluta la vicenda? 

«Il mandante è ancora in carcere, ma non si è mai aperto un procedimento penale perché i sicari non sono stati identificati. Si sa però che orbitavano intorno al gruppo di fuoco che ha ucciso Fabrizio Piscitelli (il boss noto come Diabolik, ndr). Ricordo che un altro trafficante di quel giro, Selavdi Shehaj, venne ucciso a pochi passi da casa mia, sulla spiaggia di Torvaianica». 

Dopo le minacce hai avuto paura? 

«No, c’è stato un senso di smarrimento. Come quando intervistai Francesco Pennino, affiliato al clan Ferrara. Diceva di aver assistito all’incontro in cui il terrorista Salah Abdeslam aveva comprato armi ed esplosivo da usare nell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. Erano passate 48 ore dalla strage».  

Perché Pennino si rivolse a te? 

«Aveva visto una mia inchiesta sul traffico di armi andata in onda il giorno prima. Si ricordava il mio nome, perché nel 2010 lo aveva sentito nell’infermeria del carcere dell’Aquila. Anche in quel caso un esponente dei Santapaola voleva farmi ammazzare, ma l’omicidio fu stoppato da Matteo Messina Denaro, perché non voleva attirare l’attenzione degli inquirenti».  

La scorta ti ha cambiato la vita? 

«Beh, non posso far salire i miei cari in macchina, né decidere all’improvviso di uscire per una passeggiata. Io comunque non ho mai frequentato salotti, jet set, quindi è cambiato poco. Poi la scorta diventa una famiglia allargata. Con gli agenti si crea uno spirito fraterno, perché vivono con te tante emozioni, anche i nervosismi di certe giornate lavorative». 

E il lavoro? 

«Prima era più semplice incontrare le fonti, ma ora mi sento tutelato. Una volta gli agenti hanno scoperto che tre persone mi stavano spiando mentre incontravo una personalità autorevole. Parlavano tra di loro con gli auricolari, mentre provavano a registrare il mio colloquio».  

In Italia i giornalisti vengono ostacolati? 

«Certo. Per l’anniversario della morte di Ilaria Alpi, l’osservatorio Ossigeno per l’informazione ha presentato il suo rapporto annuale. Nel 2024 sono stati minacciati 516 giornalisti, abbiamo il record di intimidazioni in Europa. E poi sono state approvate leggi liberticide che portano all’oblio di Stato, come il divieto di pubblicare i nomi contenuti nelle ordinanze di custodia cautelare (legge Nordio, ndr). Sono duri colpi alla libertà di espressione».