“Dove sei Matteo?” Giacomo di Girolamo, speaker e direttore di Radio Rmc101, se lo è chiesto per molti anni, in una striscia quotidiana che, non senza amara ironia, interrogandosi sulla latitanza di Matteo Messina Denaro – l’ultimo dei capimafia responsabili delle stragi che hanno insanguinato gli anni Novanta rimasto libero, per quanto latitante, nel terzo millennio – tracciava la sua contiguità e quella della mafia, a Trapani e non solo. Con il territorio e i suoi sistemi di potere, dalla massoneria all’imprenditoria. Chiarendo, cioè, che cosa ha consentito a Messina Denaro di restare libero, ancorché in latitanza, dal 1993 al 2013. E di rimanere, con ogni probabilità, nei pressi di Castelvetrano, il paese dove è nato e dove suo padre, Francesco Messina Denaro, noto come don Ciccio, è stato il rispettatissimo capomafia, fino alla sua morte, avvenuta nel 1998, ma da cittadino libero.
Consegnato ai poliziotti da morto
A impedire al figlio di seguire la traccia del venerato padre, e a consegnarlo finalmente alle forze dell’ordine – il 16 gennaio 2023, il giorno del compleanno della Presidente del Consiglio – è stata la sua malattia: un adenocarcinoma che lo ha costretto ad anni di chemioterapie le cui tracce sono state trovate, dalla polizia, in una sorta di cartella clinica in formato pizzino nascosta nella gamba di una sedia nella casa della sorella di Messina Denaro, Rosalia. Proprio grazie a quelle tracce di ricoveri e operazioni, i carabinieri hanno potuto dare un volto e un nome in prestito, Andrea Buonafede, al latitante per trent’anni senza volto, e fare in modo che la sua morte, avvenuta otto mesi più tardi lo cogliesse non più latitante, ma mentre scontava otto ergastoli, l’ultimo comminato quando era già in galera proprio per le stragi di Capaci e via D’Amelio, contro i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte. A ricostruire quanto fino a qui tratteggiato, è un accurato podcast disponibile dal 16 gennaio su Spotify e su tutte le altre piattaforme di ascolto (come il podcast di Noi Antimafia, Gridiamolo), pubblicato da Chora Media, dal titolo “In fuga”.
Tre decenni di latitanza
A tracciare i tre decenni di latitanza di Matteo Messina Denaro e i quaranta giorni che hanno portato alla sua cattura sono il direttore della podcast company, Mario Calabresi, e soprattutto Giovanni Bianconi, nota firma del Corriere della Sera, che – in una interessante puntata extra in forma di intervista – racconta di essersi trovato a Palermo proprio pochi giorni prima della cattura del boss, e di aver fatto, come da molti anni, un giro di richiesta di informazioni, ai propri contatti, sulle novità in merito alla latitanza del capomafia. Bianconi non lo sapeva, ma proprio in quelle ore si stava delineando l’operazione che, circondando la clinica palermitana dove Messina Denaro avrebbe svolto una nuova seduta di chemio, avrebbe portato alla sua cattura. Lo sapeva, invece, ed era tra i pochissimi – prezioso, nella narrazione, anche l’approfondimento sui metodi d’indagine, che ben chiarisce l’importanza di evitare ogni fuga di notizie – il procuratore aggiunto Paolo Guido, che al cronista ebbe a dire “questo è l’anno giusto”. Non abbastanza esplicito per trattenerlo in città, così che la notizia dell’arresto coglie un Bianconi stizzito mentre si imbarca su un nuovo volo da Roma a Palermo, come molti anni prima, all’arresto di Salvatore Riina. A dargliela, tra gli altri, è proprio Calabresi, insieme all’invito di costruire insieme un podcast sulla parabola del boss, offerta a uno dei cronisti più esperti di terrorismo prima e di mafia poi.
La ricostruzione della ragnatela
Un’esperienza che si avverte, nel podcast, soprattutto nel suo attento lavoro di ricostruzione delle reti. “In fuga”, infatti, non è soltanto un podcast su Matteo Messina Denaro. Si tratta invece di una narrazione di trame e sguardi obliqui, che allarga la visione. Ricostruendo, innanzitutto, i rapporti prima e gli arresti poi degli altri responsabili delle stragi: i capimafia Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, ma anche Giovanni Brusca, l’uomo che premette il telecomando che fece saltare il tratto di autostrada dello svincolo di Capaci su cui passava l’auto di Falcone e Francesca Morvillo. Gli arresti sono ripercorsi tramite il lavoro delle forze di polizia (Brusca ad esempio fu arrestato perché, sentendo in un’intercettazione un suono di campane, la polizia ebbe l’intuizione di riuscire a riconoscere il luogo della latitanza facendovi passare vicino un collega su una moto smarmittata) ma soprattutto attraverso i rapporti, di interesse e formale rispetto che intercorrono tra loro. Si colgono così il linguaggio e le forme della mafia, venati di parole come “onestà” e di una retorica che ricorda e perverte quella del banditismo risorgimentale, di vittime in lotta contro uno Stato che i mafiosi non riconoscono.
Trame ancora da comprendere
Si rivela utile soprattutto per questo, un lavoro come questo: c’è ancora bisogno non solo di conoscere le tappe della lotta alla mafia, ma di comprenderne sviluppi (come il ritorno, oggi, proprio grazie a Messina Denaro, a una mafia affarista e silente che, come dice con disprezzo Riina dal carcere “fa pali della luce”) e rapporti interni. Come quello con la famiglia Bonafede, che al boss presta il nome che lo protegge per tre decadi dopo esserne stata, storicamente, una delle più solide alleate dai tempi di Don Ciccio; ma anche, partendo da qui, il suo rapporto con le donne, molte e diverse, spesso in una eloquente sovrapposizione di piani. Amore o potere, è quello che lo lega a Laura Bonafede, sorella di Andrea il prestanome? E come spiegarsi di un’altra Andrea, una giovane donna austriaca, con la quale ha un legame prima della latitanza e in nome della quale uccide un “rivale” nel 1991 mischiando delitti con modalità mafiose e questioni personali? Già diventato latitante, poi, questa donna lo proteggerà facendolo sfuggire alla cattura, come per decenni ha fatto tutta una zona che lo considerava un uomo “che mangia e fa mangiare”. Non è, però, la protezione dei mafiosi, una questione tutta siciliana, anche se delle peculiarità della sua terra si giova: come, ad esempio, della radicatissima e solida tradizione mafiosa del trapanese. Non si capisce Messina Denaro né tutti coloro che lo hanno preceduto e ci hanno fatto affari senza immergere le mani in un sistema che ha regole, linguaggi e codici da decodificare: il principale merito di In fuga e di fare, con incalzante chiarezza, proprio questo: portare, nel buio della mafia, la luce dell’informazione.