«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni», mentre tornava a casa da scuola. Così Davide Enia, scrittore e drammaturgo, traccia – sul palcoscenico del Teatro Grassi di Milano 25 marzo fino al 17 aprile – le linee del suo “Autoritratto”, prendendo a prestito il titolo da un saggio di Carla Lonzi (lo stesso dell’edizione in volume per Sellerio). La maestria dell’Enia narratore civile ricompone le tracce di una vita, la sua, prima di bambino e poi di ragazzo. Ma anche quelle di una città, Palermo, e di un tempo, gli anni Ottanta e Novanta, intessuti di consuetudine alla morte, per mano di cosa nostra. Ma anche del coraggio assorbito, più che imparato, suo malgrado. Perché, per un ragazzo che aveva padre Puglisi come professore di religione, e affacciandosi alle finestre riconosceva quelle di casa del giudice Paolo Borsellino, vivere quei decenni in quelle strade significa intercettare ogni sentire anche prima di comprenderlo. Scontare, personalmente, la propria fatica e il giudizio del mondo. E attraversarlo. Per poi capire, e da adulti restituire, anche sulla scena, un lavoro di straordinaria intensità, dove la forza della narrazione – come già nel “cunto” tradizionale di Basile, o nei canti della terra – affonda le radici in un’identità che anche da quel sangue è stata costruita e che, senza retorica e ipocrisia, Enia sa raccontare. Ma vuole liberarsi dall’esercizio sterile delle celebrazioni per trasformarla in uno sguardo sul mondo: di questo abbiamo parlato con il regista, drammaturgo e protagonista. Perché, nel sangue visto per strada, si specchia non soltanto l’immagine del proprio autoritratto, ma anche quello – ineludibile – di una intera società.
Cosa ti ha insegnato l’esempio di Lonzi?
«È una lettura che ti apre una metà del mondo: una critica femminile, sul femminile, molto radicale, segnata dai tempi, ma di grande profondità e chiarezza. L’idea di base è che qualunque riflessione il critico possa fare, in realtà non parla mai dell’opera, ma del critico: in questo senso ognuno disegna il proprio autoritratto. Questo fa sì che il tentativo di composizione, quindi il racconto di una storia – che per me è sempre una storia plurale – risulti programmatica nel tracciare le linee del proprio autoritratto, come un racconto di Jorge Luis Borges».
Si può dire che si capisca Palermo solo standone fuori? La forza di questo lavoro è però il suo racconto della città da dentro. Come ti collochi, come persona e autore in questa dialettica?
«Non posso affatto dire che si capisce Palermo solo standone fuori. Posso dire però che la prima volta che l’ho vista davvero è stato dopo che sono stato fuori. L’occhio ha bisogno della discontinuità per poter vedere la realtà. Questo è il motivo per cui fin dall’antichità lo straniero veniva considerato sacro: ti permette, oggi come allora, di utilizzare i suoi occhi come uno specchio».
Dunque non c’è un’antitesi?
«No, però è necessario abituare lo sguardo a una realtà esterna per poter iniziare a vedere la stessa realtà che abiti. Per potere capire un luogo, che sia Palermo o qualunque altro oltre ad abitarlo, è necessario osservarne altri per riuscire a capire affinità e divergenze con il tuo. Questo è un movimento necessario che rivendico. Credo, come altri, che lo sguardo che abbiamo sulla nostra città sia fortificato dall’aver vissuto periodi della nostra vita fuori».
Palermo ti ha dato la lingua, intesa come lingua locale, ma anche il cunto (ovvero una forma di racconto che la tradizione siciliana trae dall’epos omerico e poi medievale, ndr)
«Si, mi ha dato tutta la struttura simbolica che mi appartiene. Che ha un riverbero nelle parole, ha immanenza nei silenzi e ti colloca in un modo preciso di stare al mondo, di osservarlo e di relazionarti. Quindi è un rapporto da sempre molto viscerale quello con la città. Anche dentro la logica del conflitto, c’è una profondità assoluta».
Che in teatro significa anche portare la storia nei corpi: che senso ha portare questa storia nello spazio teatrale?
«Il Novecento è il secolo in cui la storia si scrive nei corpi. È la grande intuizione e anticipazione di Franz Kafka, il cui racconto “Nella colonia penale” spiega il funzionamento di una macchina da tortura sul corpo del torturato. Il corpo diventa l’elemento politico centrale di questo XXI secolo che stiamo attraversando, perché sul corpo e sulla privazione di libertà del corpo e sulla violenza che si scatena si attua la dinamica biopolitica del presente. È tutta la lezione di Michel Foucault che viviamo. La partita si gioca nella centralità del corpo e nell’abuso sistematico, nella negazione dei diritti o nel permettersi di concedere ad altri diritti, come se fossero figurine da darsi e da non darsi. Il teatro è unico perché c’è un incontro dei corpi dentro la sala».
Nello spettacolo c’è una riflessione lucidissima su come si sopravvive. Oggi, a che consapevolezza sei arrivato su questo? Come si fa a non trasformare determinate persone in figure e a farle rimanere vive?
«Il primo passaggio necessario oggi più che mai è quello di disertare la storia, uscire dai binari costruiti per giustificare tutto. Stiamo assistendo a uno sterminio silenzioso: penso a Gaza, e agli altri fronti della guerra, all’Ucraina. Si considera soltanto la via delle armi, vengono irrise le persone che cercano una terza possibilità. La riduzione del mondo a un’antitesi, il manicheismo, indica la limitatezza di visione e la malafede con cui viene presentata. Siccome la storia è una catena ininterrotta di abusi e c’è stata un’accelerazione della tecnologia che ha reso più sofisticato e quindi più disumanizzante lo strumento dello sterminio – bisogna disertare la storia».
Come?
La storia va disertata con pratiche che negano la logica utilitaristica del capitalismo. Tra queste ci sono le pratiche artistiche, spirituali, religiose, sportive, che ognuno pratica come vuole. Ed è necessario, quindi, anche smitizzare la logica della santificazione a tutti i costi delle persone: sono persone, non sono eroi».
Uscire dalla storia e memoria sterile, significa anche passare dalla memoria personale? Per questo nello spettacolo leggi la storia attraverso la tua memoria di vita?
«Passare attraverso la memoria individuale è lo strumento per capire che ti è successo qualcosa. Questo è. Punto. E bisogna smettere di credere al fatto che alcune parole, come “memoria”, possono avere un potere salvifico, non ce l’hanno. Quello che sta accadendo oggi a Gaza ne è l’esempio perfetto».
Perché oggi cosa nostra è il regno dei discorsi incompiuti?
«Perché lo è sempre stato, lo è ancora e continua a esserlo. L’ambiguità, il torbido sono le condizioni necessarie perché si creino strutture di potere tese a mantenere il privilegio sulla pelle dei troppi. E perché questo avvenga è necessario che non emerga la verità dei fatti, una catena di cause ed effetto che ti spieghino perché le cose sono successe. È la stessa idea della giustizia che abbiamo oggi che serve a intorbidire le acque. Il carcere, ad esempio, è inutile se non è riabilitativo. Sarebbe necessario arrivare a una sorta di pacificazione, possibile solo se viene detto tutto quello che è successo, perché conoscere tutti i fatti è l’unico passaggio necessario per il superamento del trauma e la cicatrizzazione. Ma non accade: abbiamo ancora le ferite aperte della mafia perché non sappiamo nulla di quello che è accaduto, siamo dentro la logica del discorso incompiuto, perché la continua omertà è funzionale al potere ed è funzionale a gran parte dello Stato. Come diciamo, se si continua a coltivare il campo con ferocia, con crudeltà, omertà, violenza prima o poi appare il male, è inevitabile. È solo questione di tempo».
Nello spettacolo si dice “è colpa nostra se restiamo”. Come ti rapporti oggi col concetto di colpa?
«Il senso di colpa si sviluppa quando mancano pienamente degli strumenti di comprensione. Nello spettacolo lo dice mio fratello, che non aveva nessun motivo di provare vergogna di fronte a una frase aberrante di una signora, sdegnata dalle stragi di Capaci e via D’Amelio: “Questi siciliani li devono ammazzare tutti”. Mio fratello viveva allora in una Sicilia in cui non emergevano le parole perché nessuno era stato in grado di trovarne, tranne pochissimi illuminati. I pochissimi sono talmente avanti che servono come stelle per indicare la rotta, ma nessuno riusciva a nominare le cause e l’appartenenza a una mentalità che sosteneva la logica di cosa nostra. Parte del senso di colpa è instillata dallo stesso ambito culturale che ci costruisce come persone. Ma per essere affrontato bisogna dargli un nome: cosa sta creando questo scompenso? Quindi è necessaria una rivoluzione innanzitutto linguistica, abituarsi a nominare i fatti, gli accadimenti, a nominare quello che ci crea inquietudine, senza sentirsi in colpa per il fatto che ci fa stare male. Ma serve una rivoluzione culturale, per tornare a Carla Lonzi».
E come si fa?
«Iniziando fin da piccolissimi ad abituarsi al dialogo, all’ascolto, sforzandosi di provare a nominare quello che ferisce, capire che possono esistere aiuti che vengono, ad esempio, dalla terapia: una delle cose migliori che mi sia capitato nella vita, proprio perché aiuta a mettere chiarezza rispetto agli accadimenti. E poi ridare centralità alla parola, sottraendola al silenzio. Una centralità che ha bisogno che le parole vengano usate con esattezza. Da qui ricominciare a ricostruire le relazioni: a volte il bisogno nasce proprio da un mancato ascolto».



