Federica Iandolo: “Rivalutare il ruolo delle donne nei ranghi del potere mafioso” 

Federica Iandolo: “Rivalutare il ruolo delle donne nei ranghi del potere mafioso” 

‹‹In queste pagine ho tentato di scardinare l’immagine della donna di ‘ndrangheta procreatrice di figli e custode del mandamento del potere del marito. Anche la magistratura ha iniziato a vedere il ruolo femminile in quest’ottica per perseguire le donne nelle organizzazioni criminali». Federica Iandolo è una giurista e ricercatrice indipendente. Laureata in giurisprudenza all’università di Parma, dove ha conseguito un master di secondo livello in Scienze forensi, ha poi svolto corsi di perfezionamento alla Statale di Milano sulla ‘ndrangheta e la criminalità organizzata con Fernando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto. Nel 2024 ha pubblicato “Madrine di ‘ndrangheta”, edito da Compagnia editoriale Aliberti, decidendo di approfondire la figura della donna all’interno della mafia e analizzando come sia cambiato il ruolo femminile nelle cosche dal passato ad oggi. A #Noi Antimafia ha raccontato come il suo saggio è arrivato tra i 9 finalisti del premio letterario Nabokov 2024 tra più di 900 titoli. 

Quando hai scelto di scrivere di donne di ‘ndrangheta e perché? 

‹‹In seguito al maxiprocesso “Aemilia”, iniziato il 28 gennaio 2015, che ha riguardato l’infiltrazione mafiosa calabrese in Emilia. Ho intervistato alcuni avvocati e un giudice che si è occupato del processo e mi sono resa conto di come le donne fossero assenti totalmente da questo scenario. Andando a vedere i dati processuali anche di altre operazioni, ho trovato conferma del fatto che il ruolo della donna di mafia era sempre defilato, mai sostanziale e poco studiato. Da qui mi è venuta voglia di scoprire che cosa ci fosse dietro». 

Come nasce il titolo “Madrine di ‘ndrangheta”? 

‹‹Nasce da una riflessione fatta con il mio editore. Dato che il libro parla di potere femminile, volevamo dare un’impronta abbastanza delineata di quelli che potevano essere i nuovi ruoli di grande rilievo delle donne all’interno della mafia calabrese. “Madrine” è in contrapposizione al più famoso “padrino”, ci sembrava di dare l’idea di un contraltare maschile di quella figura». 

Perché nel libro scegli di iniziare dalla storia di Karima Bachaaoui? 

‹‹Karima è stata la prima che ho incontrato in questo percorso di interviste. Le persone con cui parlavo me la nominavano spesso e ho capito che era una figura abbastanza particolare e per questo sono andata a vedere chi fosse. Era una donna di origine straniera, molto indipendente, che aveva un potere economico forte perché gestiva i soldi di una società di un uomo importante del clan, Gaetano Blasco, ed era anche la sua amante. Partecipava attivamente al business, andava alle riunioni e aveva potere decisionale. Questa figura era il contrario di ciò che avevo letto fino a quel momento nella letteratura accademica. La storia della Bachaaoui mi ha aiutata e guidata nel conoscere altre figure di donne in contesti che non sono quelli tradizionali della Calabria». 

Cosa accomuna le donne di ‘ndrangheta in Emilia a quelle di ‘ndrangheta in Calabria? 

‹‹Una bella domanda. In comune non hanno tantissimo. Un ruolo fondamentale nell’organizzazione ce l’hanno tutte, in modi diversi. In Calabria ricoprono quello tipico dei libri sulla ‘ndrangheta, che è una mafia basata sui legami di sangue e familiari. Dalla donna tradizionale ci si aspettano determinati atteggiamenti, come lo stare sempre un passo indietro rispetto all’uomo, intervenire solo in caso in cui ci sia bisogno o dietro esplicita richiesta e di mantenere il controllo del clan perché il marito è in carcere piuttosto che latitante o morto. Invece le donne in contesti non tradizionali, come quelle del nord, che non appartengono a quella cultura, spaccano completamente il paradigma. Non sono sottomesse, non hanno legami familiari e questo le “libera”. Roberta Tattini, altra figura importante presente nel libro è una consulente finanziaria, di Bologna, che ha un rapporto di lavoro con Nicolino Grande Aracri, ne maneggia perfino i soldi. La Tattini, come altre, non ha ricevuto l’imprinting culturale delle donne calabresi che è quasi impossibile da recidere». 

Questa evoluzione è stata possibile perché si sono spostate dalla Calabria? 

‹‹Si, sicuramente è dovuta al contesto geografico in cui si sono venute a trovare le donne e la ‘ndrangheta. La mafia calabrese non poteva pensare di rapportarsi in luoghi come l’Emilia, la Lombardia, il Trentino e il Veneto allo stesso modo di come si rapportava in Calabria. La ‘ndrangheta poi è un’organizzazione criminale velocissima, camaleontica, che si adatta al contesto in cui va per introdursi nell’economia lecita dei luoghi che poi sfrutta per il suo business. Anche nelle zone tradizionali, quindi in Calabria, iniziano ad esserci donne che hanno più potere di altre, molto temute, ma c’è sempre l’ostacolo del legame familiare». 

Perché facciamo fatica a riconoscere la figura della donna come criminale? 

‹‹Questo concetto è sempre stato rifiutato storicamente dagli studi di Cesare Lombroso, considerato il fondatore della criminologia moderna, in poi. Il ruolo della donna, moralmente e socialmente accettato, in modo quasi sacrale, era quello di madre e di moglie. Le donne che compivano reati, per Lombroso, erano o pazze o prostitute, una mamma non poteva essere di certo una criminale. Per le femministe degli anni Settanta invece erano persone che volevano emanciparsi imitando gli uomini. Si è sempre data una scusa alla delinquenza femminile. Non appare mai come qualcosa dentro alla donna, insito per natura, ma è sempre qualcosa al di fuori che la porta a delinquere. Invece la donna è un essere pensante e per questo ha il diritto di delinquere ed essere punita. Anche nella mafia, la povera madre e moglie che piangeva un marito morto per una faida, non poteva certamente avere a che fare con il crimine né era ritenuta in grado di compiere atti criminosi. Questa visione ha purtroppo avvantaggiato le cosche perché le donne invece facevano e fanno tantissimo». 

Ci sono ‘ndranghetiste che collaborano con la giustizia? 

‹‹Purtroppo ce ne sono molto poche. In Italia erano sette, poi Lea Garofalo è stata uccisa. La collaboratrice di giustizia è solo una delle figure: abbiamo le testimoni di giustizia, che sono diverse, perché non hanno compiuto reati, riferiscono ciò che sanno perché hanno avuto contatti con l’ambiente. Le collaboratrici, invece, hanno commesso dei reati e quindi con la collaborazione ottengono delle agevolazioni, degli sconti di pena. Esistono anche le “distaccate”, figure un po’ fumose, perché la legge non è proprio chiara a riguardo, che sono quelle che rifiutano l’ambiente mafioso, a volte hanno compiuto reati, altre volte no e chiedono aiuto per uscire da quel contesto ma non hanno nessuna tutela. La scelta di abbandonare il mondo criminale spesso costa la vita a queste donne, ancor più soprattutto se sono madri, perché garantiscono la discendenza al clan. Un marito abbandonato da una donna che rifiuta la ‘ndrangheta, senza i suoi figli, perde valore all’esterno ed è insopportabile per una famiglia mafiosa l’onta di tale vergogna davanti alle altre famiglie». 

Perché queste donne perdono la loro identità dopo la collaborazione?   

‹‹Avviene in via transitoria, perché la legge non permette il cambiamento d’identità definitivo quando diventi collaboratrice. Nel caso delle distaccate poi non esiste giuridicamente un cambio d’identità. Una di loro mi ha raccontato che lei e i suoi figli girano con i documenti originali, i ragazzi sono iscritti a scuola con il loro nome vero e lei deve cercare lavoro col suo nome reale. Questo aumenta tantissimo il pericolo che già corrono e il terrore che qualcuno scopra chi sono, anche se la loro paura non finirà mai perché la ‘ndrangheta non si dimentica di te». 

Da donna cosa hai provato nel confrontarti con queste figure? 

‹‹Ho passato tante fasi, mi sono sentita molto arrabbiata, domandandomi come abbiano fatto delle donne a sopportare tutto questo, vivendo come prigioniere, guardandosi sempre le spalle e facendo vivere tutto ciò anche ai propri figli. Ho provato compassione e con scarsi risultati ho tentato di capirle e mettermi nei loro panni, ma credo che nessuno possa riuscirci veramente se non ha passato quello che hanno passato loro. Ho un’ammirazione infinita per il coraggio che hanno avuto, la forza di strapparsi le catene di dosso ed essersene andate. Io forse non l’avrei mai avuta, hanno distrutto completamente tutta la loro vita passata e ricominciato da capo correndo dei rischi enormi». 

Qual è la storia che ti è rimasta più impressa? 

‹‹Quella di Anna, il nome è di fantasia, una persona di grande dignità e coraggio, di origine straniera, che non aveva la famiglia vicina e non conosceva la cultura calabrese del marito. Si è trovata in una condizione di schiavitù, di prigionia, da un giorno all’altro, non capendo nemmeno cosa stesse succedendo. Quando sono nati i bambini non ha scelto i loro nomi perché nel clan non ti è concesso nemmeno questo, viene deciso dalla famiglia del padre. Io da madre non riesco ad immaginare qualcosa di più umiliante, doloroso, che ti toglie tutto e ti annienta». 

Pensi che si potrebbe cambiare qualcosa nell’ordinamento giuridico italiano per essere d’aiuto alle donne che scelgono di uscire dalla ‘ndrangheta? 

‹‹Ritengo che debba essere modificata la legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia. Il cambio d’identità deve diventare permanente per permettere a queste persone di vivere una vita normale e credo sia necessario inserire qualcosa per tutelare anche le distaccate. Esistono progetti sociali che hanno aiutato tantissime donne con bambini ad andarsene dalla ‘ndrangheta e avere una nuova vita, ma tutto questo è stato fatto attraverso associazioni e la società che se ne sono fatte carico. Queste donne devono sentirsi tutelate dallo Stato con strumenti ad hoc per loro che le rendano sicure e che garantiscano loro una vita dignitosa».