“Stiamo sottovalutando qualcosa, siamo già convinti di vincere”. Questo pensa Sonia quando, una manciata di giorni prima dell’inizio del G8 di Genova, comunica ai suoi compagni di partito e di lotta che lei, nella città sotto controllo militare di quei giorni di luglio 2001, non ci sarà. I compagni le danno dell’infame, l’accusano di starsi chiamando fuori dalla lotta. Lei, invece, pensa: “Ci stiamo facendo infilare in una trappola”. Sonia Pedemonte è la protagonista del romanzo di “Come le lucciole” – titolo preso in prestito da una storica canzone femminista – pubblicato da Solferino, con cui Francesca Pongiluppi fa i conti con una memoria personale e collettiva che attraversa il Novecento. E lo conclude, in quella che è stata dichiarata, da Amnesty International, come “la più grande sospensione dei diritti umani a partire dalla Seconda guerra mondiale”.
La fuga
La protagonista del romanzo avverte che qualcosa di decisivo sta accadendo, lascia la città per un’altra urgenza: tornare dov’è cresciuta, nei pressi di Albenga (Savona), dove la casa dell’amata Jolanda – vicina in bilico tra nonna e mito – custodisce una memoria femminile che passa dalla guerra e dal colonialismo in Africa, pagina cupissima e quasi del tutto rimossa della storia d’Italia.
Il clima di terrore
Oggi, è quasi impossibile ricostruire il clima di quei giorni a chi non li ha vissuti. Anche per questo è difficile che la generazione dei più giovane conosca quelle loro tragedie, cancellate in fretta dal crollo delle Torri Gemelle una manciata di settimane più tardi. A differenza della sua protagonista, però, Francesca in quei giorni, a Genova, è rimasta, e ricorda benissimo “il clima di terrore. Avevano detto di aver fatto arrivare 200 body bag, di aver allestito camere mortuarie in più, che ci fosse Bin Laden a Genova, che i manifestanti lanciassero sacche di sangue infetto con l’AIDS”: così le forze dell’ordine, paventando attacchi terroristici di proporzioni epocali, giustificavano una geografia cittadina di stampo militare, la contraerea coi missili pronta all’aeroporto Colombo. Ma chi faceva tanta paura? Trecentomila manifestanti (in una città che abitualmente ne conta il doppio) e una rete di mille associazioni che riuniva gli scout e i preti agli anarchici e ai comunisti, mentre i leader mondiali si incontravano per discutere di globalizzazione e dall’altra si cantava “Manu Chao” e si dialogava di giustizia sociale. Una generazione di giovani ancora pensava a un mondo diverso, a un mondo migliore, certa di essere a un passo dal farcela perché, pensa Sonia, “c’è una nuova solidarietà da condividere. Nuove iniziative da abbracciare perché un mondo di pace e giustizia superino i confini. Perché nessuno è libero finché non siamo tutti liberi”.
“Lo facciamo perché si deve fare”
Ma di quei trecentomila, a spaventare le forze dell’ordine – spesso, racconta chi c’era, c’erano ragazzi di vent’anni disorientati, soldati di leva di fuori città, mentre i militari genovesi erano stati messi in ferie o destinati ad altro incarico – erano soprattutto i temutissimi Black Bloc, entità ancor oggi dai contorni e obiettivi confusi che ci si aspettava arrivassero, in mezzo e intorno ai cortei pacifici, a contestare con la guerriglia i danni e la violenza di un sistema sempre più capitalista. “Non ci sto, è una messinscena e noi finiremo col recitare la parte che ci assegneranno. E lo scopriremo una volta sotto i riflettori” dice la Sonia del romanzo. Avremmo dovuto lasciarli soli, gli otto grandi della terra, si dice la donna che oggi presta a Sonia i suoi pensieri e il sorriso disilluso con cui guarda all’ingenuità dei compagni, che animavano piazze tematiche e balli per le strade con l’ostinazione di chi pensa “lo facciamo perché si deve fare”.
Reagire all’orrore
Mentre dalla distanza sicura di Ca’ Mimosa le memorie di famiglia si schiudono agli occhi di Sonia, come i segreti della sua genealogia, e le confidenze depositate nelle pagine di un diario, dalla Libia alla Resistenza, liberano la verità della donna che li ha attraversati, nel XXI secolo i giorni del G8 scorrono e le sue voci arrivano attutite, ma non per questo meno pressanti, a tratteggiare le forme di una nuova strategia della tensione che ha la forma dei nuovi media, dei telefonini che iniziano ad affacciarsi e degli ultimi registi (Rosi, Monicelli) che ancora si aggirano camere alla mano a documentare un presente fin troppo simile a quello che conoscevano. Mentre Sonia scava sotto la superfice di un passato coloniale che lei, come il Paese tutto, hanno sfiorato appena in superfice, la pressante domanda su “come si reagisce alla scoperta dell’orrore, così vicino?” prende la forma della voce di un’amica che le dice che intanto, a Genova, un poliziotto ha ucciso un ragazzo. Spagnolo, dice qualcuno. Dopo che, mentre i Black Bloc incendiavano indisturbati per tutta la mattina, la polizia carica il corteo a freddo, lancia i lacrimogeni e spinge verso il corteo i blindati con gli idranti.
Carlo Giuliani “Il piccolino”
Il racconto, tra Corso Gastaldi, via Tolemaide e Piazza Alimonda, nel romanzo di Pongiluppi passa negli occhi di chi c’era, e il dolore da chi conosce i propri affetti. Il ragazzo morto, infatti, non è spagnolo. Si chiama Carlo Giuliani, ha 23 anni, ma per Sonia – e Francesca, che ne è il parziale alter ego – è soltanto Carletto, amico fragile che scrive poesie, il più giovane di tutti. Nel gruppo di amici, lo chiamavano “il piccolino”. Nel romanzo, l’autrice consegna a Sonia la pietà dolente di una distanza che, per contro, la costringe ad ascoltare impotente le voci di chi c’era e si sente solo, e traumatizzato. E ha capito che non si tratta più di un “gioco tra gentiluomini”, della dialettica, anche accesa, delle opposte fazioni politiche. C’è chi gioca un’altra partita, come i celerini che entreranno alla scuola Diaz lasciando sangue ovunque e ferite che non potranno più rimarginarsi. Un’irruzione giustificata con un paio di molotov, che presto si scopriranno essere state inventate di sana pianta. O come chi, nella caserma di Bolzaneto, umilierà e violenterà giovani donne colpevoli di non aver accettato di gridare “viva il Duce” per il sollazzo di chi dovrebbe proteggerle.
Raccontare un secolo di contraddizioni
Nel romanzo di Pongiluppi si ritrova la sintesi di un secolo nelle sue contraddizioni più dolorose, tra ferite ereditate e un passato con cui fare i conti. Oggi, quando diventa più difficile accettare la violenza se arriva da chi dovrebbe proteggere, racconti come questo aiutano a rileggere una pagina di storia ancora aperta. La disillusione e il silenzio di molti giovani, che non credono più di poter costruire insieme un altro mondo possibile, sono l’eredità diretta di quella stagione. Da lì ha origine anche la disintegrazione di un’idea di futuro: un processo che, secondo diversi osservatori, ha ricordato le strategie con cui negli anni Settanta la diffusione dell’eroina contribuì a spegnere i movimenti di contestazione. Alcuni attivisti interpretarono persino quella fase come parte di un’“operazione programmata”, nota con il nome in codice Blue Moon. Il racconto di chi ha vissuto quei giorni resta una testimonianza preziosa, capace di riportare prospettive diverse da quelle allora prevalenti nei media. Una consapevolezza che l’autrice affida alla voce di Sonia: “La mia storia personale è politica. Il dolore è privato, certo, ma la responsabilità di cambiare le condizioni che lo hanno generato deve essere collettiva. Oggi come ieri”.

