Dodici anni fa l’inchiesta di Federica Angeli, giornalista di Repubblica, squarciò il velo di silenzio su Ostia, rivelando che sul litorale romano la mafia non era solo un’ombra lontana, ma un potere radicato. Oggi siamo tornati per capire se qualcosa è cambiato. È sparita la mafia? O semplicemente i clan si sono dati il cambio, continuando a controllare il territorio con nuovi equilibri? Ostia, il cuore del mare dei romani, appare come sempre: spiagge affollate, famiglie in vacanza, locali che pullulano di turisti. Ma basta distogliere lo sguardo dalle cartoline estive per scoprire un’altra realtà: palazzi sventrati da bombe, stabilimenti incendiati, interi settori economici ancora permeati da un sistema che sopravvive, nonostante le inchieste e i riflettori accesi negli anni passati.
Una palestra saltata in aria
Il nostro viaggio inizia in via delle Azzorre. Qui, al posto di una palestra, resta un cumulo di macerie. Transenne, finestre divelte, cemento crepato: sembra un set cinematografico, ma è realtà. Lì, la notte del 26 giugno 2025, un ordigno ha distrutto la palestra di Gianni Di Napoli, padre di Kevin, uomo in passato vicino al clan Triassi e imputato in un processo per estorsione. «Non hanno pagato il pizzo, per questo è esploso tutto», sussurra una residente, abbassando la voce prima di rientrare in casa. Nessuno conferma, nessuno smentisce. È la legge del quartiere: parlare poco, guardare altrove.
Bombe tra i palazzi
A pochi minuti da lì, in via Vega 5, la scena si ripete. Un portone sventrato da una bomba carta esplosa nella notte del 17 agosto, vicino un bar pieno di clienti. «Nel nostro palazzo vive gente perbene – racconta l’amministratore – sono convinto che quella bomba fosse indirizzata ad altri». Una spiegazione che suona come una giustificazione, più che una certezza, in cui l’errore, lo sbaglio, servono ad allontanare ombre sinistre da un condominio immacolato che rischierebbe l’etichetta che tanto spaventa le realtà in cui la presenza mafiosa si annida.



Il litorale ferito
Spostandosi verso il mare, l’incendio del Village, lo storico stabilimento appartenuto ai tempi d’oro al potentissimo clan dei Fasciani, oggi condannato in via definitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso, rimane il simbolo più evidente delle tensioni. Lo stabilimento è stato dato alle fiamme il 26 marzo 2025, proprio mentre si discutevano le nuove concessioni balneari. Sei mesi dopo, l’odore di bruciato aleggia ancora tra cabine carbonizzate e lettini anneriti. Oggi quegli spazi sono rifugio improvvisato per i senzatetto. «È stata la mafia», risponde quasi ridendo un bagnante, come se la risposta fosse scontata. Pochi metri più avanti, le ruspe demoliscono un altro stabilimento, “Anema e Core”, mentre gli altri lidi continuano a lavorare a pieno ritmo.
Omertà quotidiana
Passeggiando per piazza Gasparri, feudo storico del clan Spada, altra compagine fiaccata pesantissime condanne per 416bis, colpisce la calma apparente. «Qui si sta benissimo, non vedi? È tutto tranquillo», dice il tabaccaio, infastidito. Un fornaio sbotta: «Non ci interessano queste cose. Noi lavoriamo». E accompagna alla porta con insulti chi osa fare domande. Sulla spiaggia, proprio davanti al Village bruciato, i bagnanti preferiscono non rispondere. «Il problema è il degrado, non la mafia», dice una signora, ricordando “i tempi migliori” prima delle inchieste. Altri, semplicemente, abbassano lo sguardo.

Arriva la ‘ndrangheta
«In questi anni ho capito che a Ostia ai clan storici si è sostituita la ’ndrangheta», racconta Federica Angeli. «Lo si intuisce da tanti segnali: osservando le dinamiche, ascoltando le persone, vivendo ogni giorno il territorio. Era impossibile immaginare che in territorio bello come questo restasse incontaminato dal malaffare. E credo sia anche fisiologico nelle perverse dinamiche mafiose che a un clan ne succeda un altro». E dunque è stato inutile lottare per tornare al punto di partenza? No, secondo la cronista di Repubblica, ancora sotto scorta. «Se dodici anni fa dominavano la negazione e l’omertà assoluta, oggi un cambiamento c’è stato a Ostia. Non siamo davanti a una ribellione pubblica, ma ricevo messaggi, segnalazioni, racconti di cittadini che, pur senza esporsi apertamente, hanno deciso di farmi sapere quello che vedono. È la prova che una parte della coscienza collettiva si è risvegliata».

La politica: allarme legalità
Ma chi comanda oggi a Ostia. Gli arresti e il clamore mediatico hanno sconfitto il fenomeno? La criminalità a Ostia non è scomparsa: si è trasformata. Ne è convinto Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S: «Dopo le inchieste di 12 anni fa furono creati presidi di legalità. Oggi vedo che questo controllo si è allentato e i criminali riemergono. Senza opportunità, il vuoto viene riempito dalla criminalità organizzata». Sulla stessa linea Raffaele Biondo, segretario dei Giovani democratici del X Municipio: «I clan hanno cambiato metodi, ma gli affari sono sempre droga, armi, usura. E sulle concessioni balneari gli interessi sono fortissimi. Purtroppo il Comune è intervenuto tardi». Rimane un mistero la posizione del X Municipio e dell’Osservatorio per la legalità, guidato dal giornalista Giancarlo Ruffo, che non hanno risposto a #Noi Antimafia.
Giovani tra indifferenza e impegno
Tra i giovani di Ostia prevale spesso l’indifferenza. Lo nota Lorenzo Coluzzi, presidente della sezione giovani di #Noi: «Dopo gli arresti la situazione è migliorata, ma il problema non è scomparso. Sta a noi combatterlo insieme». Sul perché di questa indifferenza, Coluzzi non ha dubbi: «Da una parte i giovani sono lontani da tutti i temi di attualità, tendono più a pensare ai propri interessi. Dall’altra, il fatto che la mafia abbia cambiato strategia e non faccia più rumore con gli spari, ha indebolito sempre più lo spirito di lotta». Nonostante tutto però, sensibilizzare i giovani rimane possibile e necessario. «Con il nostro progetto Management Antimafia insegniamo ai ragazzi come gestire i beni confiscati alla criminalità organizzata, un’azione concreta in un territorio dove la mala ha tanti stabilimenti balneari. Lavoriamo continuamente per creare gli anticorpi che servono» conclude Coluzzi.

