Nati per obbedire, l’educazione violenta dei giovani d’onore 

Nati per obbedire, l’educazione violenta dei giovani d’onore 

Luigi Bonaventura è nato nel 1971, è nato in guerra. Nel mezzo di una faida tra clan di cui ha iniziato a portare il peso ancor prima di venire al mondo. Nella criminalità organizzata calabrese «nasci figlio di mamma ’ndrangheta per diritto di successione, con una carica che è una promessa», ha raccontato Bonaventura, ex mafioso e collaboratore di giustizia. I ragazzini sono giovani d’onore e le ragazze sorelle d’omertà, due ruoli ineludibili nei quali si resta incastrati per sempre, anche da grandi, anche se non lo si vuole. 

Ricordi di un’infanzia criminale 

Dei suoi anni scolastici ha una sensazione vaga che stenta a descrivere, un sentimento di confusione e dissociazione. Le emozioni che sente più forti, a quarant’anni di distanza, sono quelle legate a un altro tipo di educazione, fatta di violenza. «La memoria di quel periodo non è dominata dalla paura, ma dal terrore. Negli anni ’70 la mia famiglia aveva già una guerra in corso». L’episodio a cui Bonaventura fa riferimento è la faida di Feudale, che prende il nome dalla famiglia contro cui suo nonno Luigi Vrenna aveva lottato per stabilire il controllo sulle attività criminali di Crotone. Ma la guerra non fa sconti, e ci furono dei caduti lasciando una scia di dolore e morte. «Mio zio morì, per un bambino non è semplice vedere la disperazione nella sua casa. Andare a trovare i parenti nelle carceri, subire continue perquisizioni in casa. Non ricordo l’infanzia e non ricordo nemmeno l’adolescenza. Non mi sento di essere stato mai davvero bambino».  

Il giovane d’onore 

Una condizione particolare per essere cresciuto secondo i principi della mafia calabrese, che dovrebbe rispettare i più piccoli: «È molto forte l’imperativo di non uccidere donne e bambini. È vietato, si mantiene su un codice cavalleresco abbastanza severo. Però qualche bambino e qualche donna sono morti, anche se non era questo l’intento», afferma il collaboratore. Nello stesso scontro che costò la vita a suo zio, infatti furono registrate altre due morti, quelle di Salvatore, 9 anni, e dell’adolescente Domenico, entrambi figli del noto boss Umberto Feudale e colpevoli di essere nati giovani d’onore. Non si tratta di un caso isolato, come ricorda Bonaventura citando l’episodio di Gabriele Marrazzo. Marrazzo non era un ragazzino come Domenico e Salvatore, ma un criminale emergente della mafia locale aggredito da Andrea Tornicchio, 20 anni, e Vincenzo Dattolo, 26 anni, all’epoca coetanei di Bonaventura ma appartenenti al clan Tornicchio. Il nome esatto del bambino ucciso nella sparatoria non lo ricorda, non era parte del piano. «Lo chiamavano il piccolo Dodò», dice.  

Il piccolo Dodò 

Dodò è Domenico Gabriele, aveva 11 anni quando, il 20 settembre 2009, mentre giocava a calcio, fu colpito e ucciso nella sparatoria organizzata per eliminare un rivale della criminalità calabrese. Nonostante il divieto imposto dal codice d’onore, le vittime innocenti della mafia calabrese sono circa 180. Al primo posto, infatti, resta sempre l’incolumità del nucleo: «Quando la famiglia chiama bisogna rispondere, i figli non si allontanano mai dalla ’ndrangheta. Anche se uno dei tuoi fratelli diventa dottore o avvocato è normale che resti all’occorrenza della famiglia laddove lo richiede», racconta Bonaventura. 

L’educazione alla violenza  

Uccidere vuol dire eliminare, un sacrificio necessario per rendere giustizia ai propri parenti: «Per come sono cresciuto io, era tutta una questione di eliminazione. Significa salvare la tua vita o quella di un tuo familiare, di un affiliato. Fin da piccoli bisogna esercitarsi a maneggiare le armi. Ci sono molti racconti e circostanze non casuali studiate da chi è più grande di te per manipolarti. Ciò che resta costante è l’uso delle armi – spiega Bonaventura – finché non diventa un’abitudine e una fascinazione. Ti fanno montare, smontare, caricare le pistole e magari sparare qualche colpo in aria o in un magazzino chiuso. Verso i tredici anni l’allenamento diventa più intenso. Si va in zone frastagliate o in boschi con vari tipi di armi, si mettono dei bersagli e si cerca di colpirli. Ti insegnano come ti devi posizionare in base a quello che vuoi fare, se ferire o meno, se usi un fucile semiautomatico o a pallini. Insomma, impari cose che possono tornare utili quando ti trovi in determinate situazioni».  

La filosofia dell’omertà 

Un’educazione rigida che non si manifesta solo nella violenza, ma anche nell’omertà: «Mi portavano spesso in delle stalle – prosegue il pentito – e facevamo un gioco che io ho scoperto qualche tempo dopo non essere un gioco. Mi dicevano “Tu sei ‘ndranghetista, a te piace la ‘ndrangheta”. Io mi dovevo arrabbiare e dovevo negare. Dovevo negare l’appartenenza alla mafia e la sua stessa esistenza. C’era tanto silenzio, la parola ’ndrangheta ha cominciato a circolare nel 2007, dopo la strage di Duisburg in Germania». Un’istruzione totale che comprendeva anche l’aspetto estetico. I criminali devono apparire persone serie, sicure, affidabili, rispettose. Nessun passo falso e nessuna sbavatura. 

I primi segnali di ribellione  

La sfida di Bonaventura alle leggi della mafia parte da questo, dal suo aspetto: «La prima ribellione, se posso definirla così, è stata acquisire un look dark. Era un messaggio di dissenso verso i dettami di mio padre, perché bisognava mantenere un’immagine ben definita, non ci si poteva vestire in modo particolare né come una persona qualunque». Crescendo, inizia a capire che qualcosa non torna. Che forse quella violenza non è inevitabile, che forse esiste un altro modo di vivere. L’educazione mafiosa inculca nei ragazzi la cultura della violenza, dell’onore criminale, dell’omertà. L’indottrinamento soffoca la loro immaginazione, li trasforma in strumenti della malavita, privandoli della possibilità di concepire un’esistenza diversa. Vengono cresciuti educati secondo un modello in cui la violenza diventa la regola, l’unico codice possibile. Ma nella vita di Bonaventura questa spirale di orrore si incrina. 

La svolta 

La svolta arriva con l’incontro di Paola Emmolo, la donna che diventerà sua moglie. Il matrimonio gli fa maturare la volontà di prendere le distanze dalla sua famiglia, ma la risposta del padre è brutale: deve compiere un ultimo atto di fedeltà e uccidere i nemici della famiglia, poi se ne potrà parlare. Le pressioni sono immense, ma quando si trova di fronte alle vittime, Bonaventura vede due anziani malandati, ormai incapaci di intendere o volere. Si rende conto dell’assurdità di tutto questo: sta per uccidere due persone per una faida vecchia di trent’anni, che neppure lo riguarda. Dov’è il senso? Perché lui, e non suo padre o i suoi zii? Capisce di essere stato allevato come un soldato da sacrificare, un ingranaggio della macchina mafiosa, destinato a eseguire ordini al posto di altri.  

L’inizio della collaborazione 

Bonaventura allora si confida con un amico, figlio di un giudice, e pronuncia le parole più difficili: «Voglio collaborare con la giustizia». Solo pensarlo gli sembrava impossibile. La paura lo paralizzava, gli faceva credere che qualcuno potesse leggergli nella mente, scoprire il tradimento prima ancora che diventasse reale. Ma il primo passo, per quanto cruciale, non basta. Ogni giorno diventa una battaglia contro l’ansia, i sensi di colpa, il terrore di aver tradito ciò che lo aveva cresciuto chi lo aveva allevato. Quando si decide di cambiare, il momento più difficile è trovare il coraggio iniziale, come un tuffo nel vuoto in cui conta soprattutto la prima azione: al resto ci penserà la gravità, il peso del proprio corpo, il debole attrito dell’aria. Ma nella situazione di Bonaventura la fisica c’entra poco e cambiare, per lui, è una resistenza quotidiana contro un passato che continua a reclamare la sua obbedienza. 

Tra vendette e sensi di colpa 

«Uno dei passi più difficili è stato avvisare mio padre, che era già stato informato», racconta ripercorrendo quei giorni. Da marzo a settembre nessuna reazione, fino a quando il vuoto viene riempito dai piani per eliminarlo. «Hanno tentato di prelevarmi, di avvelenarmi». Il 18 settembre 2006 scampa a un agguato fuggendo per le scale mentre il padre gli sparava alle spalle. Dodici ore dopo, un nuovo attacco sotto casa. Questa volta si difende: estrae la pistola e il conflitto a fuoco finisce con il padre ferito, insieme ad altri due uomini. Dopo questi episodi, la collaborazione con la giustizia diventa ufficiale nel febbraio del 2007. Ma il prezzo psicologico è devastante. Bonaventura precipita nella depressione. Il senso di colpa lo divora. Dopo tre anni e mezzo, tocca il fondo: tenta il suicidio. Si rialzerà grazie allo stesso sguardo che lo aveva convinto a svincolarsi dalla morsa della mafia, quello della moglie e dei figli.  

Libero di Scegliere 

La ripresa è lenta. Nel 2012 comincia a raccontare la sua storia, partecipa a progetti antimafia, aderisce a “Libero di Scegliere” con il giudice Roberto Di Bella. «Ho contribuito a far arrestare o condannare circa 500 mafiosi e a far confiscare milioni di euro», dice. Ma la battaglia è anche contro le falle del programma di protezione, che ritiene insufficiente. Chi prova a ribellarsi alla mafia spesso resta solo, senza tutele, costretto a scegliere tra disperazione e ritorno al crimine. «Molti collaboratori desistono, alcuni si uccidono, altri tornano nelle loro terre perché non hanno alternative». E senza un’opportunità concreta, il destino dei figli dei mafiosi è segnato. «Se nessuno si occupa di loro, finiranno per seguire il percorso pensato per me». 

La metamorfosi 

Rimorsi e rimpianti fanno parte del suo percorso, ma ciò che conta è essere riuscito a trasformare i falsi valori ricevuti in qualcosa di nuovo. «Mi hanno insegnato a combattere, sono strutturato per combattere. Anche senza volerlo, ormai sono fatto così – racconta Bonaventura – e ora io lotto, contro l’ingiustizia, per difendere gli ultimi. Tutto quello che faccio da quando collaboro con la giustizia lo faccio con la società civile, non con chi perpetua violenza». A salvarlo, più di tutto, è stata la sua famiglia. «Posso dare il merito della mia rieducazione a mia moglie, ma anche ai miei figli. I figli, quando li cresci, ti aiutano a crescere». Li ha cresciuti lontano dalla logica mafiosa, senza costringerli a subire il codice d’onore che aveva segnato la sua infanzia. «Oggi i miei figli mi dicono: “Siamo orgogliosi di te, perché non ci hai fatto vivere una vita criminale”».